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Apogeo e declino del buddismo in Cina






Come detto il buddismo di diffuse in Cina in epoca medioevale. Esso si relazionò al potere politico in maniera assai diversa nel Regno settentrionale e nel Regno meridionale. Con la riunificazione nazionale realizzata dalla dinastia Sui il buddismo venne eretto, affianco al confucianesimo e al buddismo, a religiose principale dell’Impero. Salvo brevi parentesi infatti, le dinastie settentrionali (alla cui tradizione appartiene anche la Sui), avevano sempre manifestato un atteggiamento benevolo verso il buddismo, considerandolo come un utile alleato al processo di riunificazione nazionale.

 

Con l’avvento della dinastia Tang, questo sostegno al buddismo si sarebbe progressivamente invertito in fare del taoismo, inteso come religione, mentre il confucianesimo fu riportato ad ideologia ufficiale dell’Impero. Inizialmente il motivo dello strisciante contrasto fra Tang e buddismo era dovuto a ragioni politiche: i monaci buddisti si rifiutavano di inchinarsi al potere politico e difendevano con intransigenza la loro autonomia rispetto all’ordine temporale. In un secondo tempo fu la motivazione economica e poco dopo quella ideologica a prevalere. Alla conclusione della rivolta di Al Lushan, la condizione critica in cui versavano le casse imperiali, convinse i vari imperatori ad accondiscendere alle pressioni dei nemici del buddismo e ad emanare una serie di provvedimenti limitativi delle autonomia dei monasteri buddisti, che erano nei secoli cresciuti esponenzialmente in numero e in ricchezze. Tali provvedimenti ne colpivano gli ampi privilegi fiscali e ne confiscarono parte delle terre accumulate (anche in maniere non lecite) negli anni.

 

La ragione ideologica invece, per quanto già sporadicamente sostenuta in passato, raggiunse dopo Al Lushan il suo culmine. Nella generale condizione di frammentazione del potere centrale e con la perdita del ruolo di grande potenza internazionale dell’Impero, il mondo cinese -o almeno una parte di esso- cominciò a rinchiudersi in se stesso, additando gli elementi giunti dall’esterno come la causa efficiente del declino generale. Il buddismo, che aveva frattanto raggiunto il suo vertice in Cina- fu accusato di essere solo una religione straniera, barbara. Si riteneva che il costume dei monaci di non inchinarsi di fronte al padre e all’imperatore stesse sgretolando la virtù -cardine dell’amore filiale. Anche la castità e la rinuncia alla vita mondana erano visti molto negativamente, poiché sembravano indebolire l’importante istituzione della famiglia e dei riti in ossequio degli antenati. Questo clima produsse il suo culmine nell’845, quando il governo Tang emanò un editto senza precedenti che imponeva la conservazione di un solo tempio buddista per ogni prefettura e di soli quattro nelle due capitali imperiali. Tutte le altre decine di migliaia di templi sarebbero state distrutte mentre 250mila monaci sarebbero stati riportati allo stato laicale. Le ricchezze dei monasteri (statue in bronzo, ferro, argento e oro) sarebbero infine state requisite dal Ministero delle Finanze.

 

Benché queste misure venissero abrogate o ridotte dal nuovo imperatore, la chiesa buddista non si riprese più dal grande colpo dell’845 e iniziò il suo lento declino. Il suo posto fu progressivamente preso dal taoismo, mentre il confucianesimo, dopo un iniziale periodo di negazione del buddismo, ne avrebbe addirittura assimilato molta della dottrina.

 


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